Disertiamo il patriarcato

Simone De Beauvoir ci aveva ammonite: «Basterà una crisi politica, economica, religiosa, perché i diritti delle donne siano messi in discussione». E noi oggi siamo in presenza di molte emergenze: le guerre, la guerra in Europa, l’orrore in Israele e a Gaza, l’emergenza ecoclimatica, la crisi economica, la crisi sociale, le destre al governo nazionale e temiamo a primavera anche in Europa… L’effetto combinato di queste crisi ha portato a un rigurgito di cultura patriarcale, alla quale continuiamo a opporci con tenacia.

Le parole di scienziate, artiste, giornaliste, storiche, filosofe, letterate riempiono biblioteche e librerie, rendendo visibile l’esistenza di un pensiero femminile, femminista e transfemminista che produce culture, saperi, pratiche. Eppure, o forse proprio per questo, in Italia si susseguono femminicidi, stupri, violenze, discriminazioni e discorsi d’odio.

Chi lotta quotidianamente contro la violenza di genere e per i diritti di tutte, tutti, tuttu, in particolare delle donne e delle persone Lgbtqia+ che più spesso sono attaccati, ancor di più in questo anno di governo di Giorgia Meloni, una donna impregnata di cultura patriarcale che nega il valore delle differenze sa bene che la strada da percorrere è ancora lunga, stretta e in salita.

Scrivo di violenza di genere mentre penso a Giulia Cecchettin. Di Giulia so poco e delle altre cento giulie uccise da compagni, mariti, amanti, fidanzati respinti so ancora meno. Di Giulia Cecchettin so che aveva 22 anni, che avrebbe dovuto laurearsi, che aveva deciso di lasciare il suo ragazzo. Non conosco i suoi sogni, le sue speranze, le sue malinconie, ma so che ne aveva, come tutte le donne. So dalle sue foto che era sorridente. So che il suo ex l’ha uccisa massacrandola di botte e ha spento brutalmente i suoi sogni, le sue speranze, il sorriso con cui guardava al futuro.

I femminicidi sono un’emergenza. E sono un’emergenza anche il linguaggio d’odio che si riversa ogni giorno sulle donne e sulle persone Lgbtq+.

Si inizia dalle parole e poi si arriva alle discrinimazioni, alle molestie (1 milione 404mila sono le donne che hanno subito molestie sul luogo di lavoro), alle violenze e perfino alle uccisioni.

È dunque naturale e giusto che in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’attenzione di associazioni femministe, transfemministe e dei media sia rivolta alla violenza di genere agita all’interno del rapporto uomo-donna, confinandola su piano “privato”, relazionale, non solo domestico. Questo, però, rischia di oscurare, occultandola, la rilevanza sociale e politica, connessa alla violazione dei diritti umani delle donne. Come se non ci fossero responsabilità delle Istituzioni nella scarsa prevenzione (nella proposta di Legge finanziaria si prospetta addirittura un taglio di fondi ai centri antiviolenza nell’agire a posteriori con pene invece di prevenire il fenomeno), nel divario salariale, nell’assenza di un reddito di autodeterminazione che consenta alle donne di allontanarsi dai loro carnefici, nella disattenzione alla salute di genere, nella perdita di diritti che ci illudevamo di aver conquistato per sempre.

Eppure la nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne (Istanbul 2011, ratificata a giugno 2013 dal Parlamento italiano), la definizione di violenza è molto chiara: «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano, o sono suscettibili di provocare, danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».

Disertiamo il patriarcato

La guerra non ci dà pace. Devasta vite, ambiente, democrazia, diritti. Per noi femministe è l’espressione estrema del patriarcato, agito da uomini violenti che vogliono affermare il proprio potere, controllare e appropriarsi dell’ambiente, dominare la natura, i popoli e soprattutto le donne.

Oggi e tutti i giorni dell’anno, pretendiamo che il corpo delle donne sia il primo territorio di pace e di libertà, non sia mai più usato come “campo di battaglia” o “bottino di guerra”. Pretendiamo che stupro e violenza sessuale non siano mai più armi per l’affermazione del potere maschile sui nostri corpi e sulle nostre menti.

Nel 2008 l’Onu con la risoluzione 1820 ha sancito che lo stupro non è solo un’arma di guerra, ma è anche un crimine contro l’umanità. Sette anni dopo, il 19 giugno 2015, con la risoluzione 69/293, l’Onu ha istituito la Giornata internazionale contro le violenze sessuali nei conflitti armati. Ma lo stupro di guerra viene ancora perpetuato.

Bambine, donne di ogni età sono state barbaramente uccise il 7 ottobre da Hamas e altre sono state rapite per essere merce di scambio. A Gaza sotto le bombe dell’esercito israeliano che ha già ucciso oltre 12 mila persone, sono 50.000 le donne incinte. Partoriscono nei rifugi, in strada in mezzo alle macerie, o in strutture sanitarie devastate, prive di materiale sanitario e farmaci perché gli ospedali in dispregio di ogni umanità e diritto internazionale sono bombardati, assediati, occupati, chiusi o irraggiungibili; 45 centri di assistenza primaria sono stati bombardati e sono inattivi. Il 15% delle donne incinte rischia complicazioni legate al parto e di avere bisogno di cure mediche che non saranno assicurate, mentre muoiono i bambini prematuri in terapia intensiva senza energia per le incubatrici.

Dopo l’invasione russa e la reazione Ucraina, armata dalla Nato, la guerra devasta il paese. Dall’inizio del conflitto nel febbraio 2022, i civili, e tra questi donne e bambini, continuano a pagare un prezzo altissimo, con oltre 10.000 morti e decine di migliaia di feriti. «La guerra ha sconvolto la vita di milioni di ucraini, compresi i bambini, che dovranno convivere con l’orribile eredità di perdite umane, distruzione fisica e danni ambientali, in particolare la contaminazione da parte dei residuati bellici esplosivi, per molti anni a venire», ha dichiarato Danielle Bell, responsabile della Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite che si è conclusa a ottobre.

Davanti a tanti morti, in prevalenza donne e bambini, davanti a tanto dolore lottiamo perché si fermi il massacro, si depongano le armi, si abbia cura delle persone. Prevalga l’umanità.

Non è facile mettere in pratica le parole di Virginia Woolf: «La guerra è entrata nel quotidiano, eppure bisogna continuare a pensare, a pensare alla pace, e da donne».

È motivo di speranza in questi tempi bui illuminare le lotte delle donne, in Italia e nel mondo, per affermare che «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere» (Christa Wolf), più che mai ora che la guerra si sta affermando come unica forma di politica e mette a rischio la vita anche nei “dopoguerra” con la devastazione ambientale e con il pericolo dell’uso di armi nucleari, continuamente evocato.

E allora, subito, accanto alla accorata denuncia delle decine di migliaia di morti e di feriti di ambo le parti (Ucraina-Russia, Gaza-Israele, per citare due delle guerre in corso che coinvolgono il governo italiano con la vendita di armamenti all’Ucraina e a Israele …), all’adesione alle campagne di sostegno agli obiettori di coscienza, alla solidarietà con i milioni di persone, prevalentemente donne, bambini e anziani costretti ad abbandonare il loro paese, alla richiesta di immediato “Cessate il fuoco!”, vogliamo porre attenzione anche a quello che la guerra provoca sull’ambiente. Che senso avrà parlare di ricostruzione quando l’habitat è già ora distrutto in profondità?

Il 24 novembre dalle 17 saremo in piazza San Fedele con la Rete Intrecciate e con le Donne in nero ci saranno simbolicamente le attiviste di Women Wage Peace (organizzazione fondata all’indomani dei 50 giorni di guerra di Gaza/ Operazione Protective Edge del 2014, cresciuta fino a diventare il più grande movimento per la pace in Israele) e le attiviste di Women of the Sun, il movimento per la pace delle donne palestinesi fondato nel 2021. Wwp e Wos, pochi giorni prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre avevano insieme marciato per la pace. E Kateryna Lanko (Ukrainian Pacifist Movement), Darya Berg (Go by the forest – Russia), Olga Karach (Our House – Bielorussia), che tenacemente continuano a portare avanti un progetto comune di pace e a chiedere, insieme, all’Unione Europea che siano aperte le frontiere per garantire protezione e asilo a obiettori e disertori. E le donne che il 4 novembre hanno raggiunto da Brescia la base militare di Ghedi, marciando per ore in fila per due, in silenzio, vestite di nero, con una sciarpa bianca e le Donne per la pace, nate nella primavera del 2022 dopo l’inizio della guerra in Ucraina e ora attive sull’orrore a Gaza, e le Donne in nero che manifestano in silenzio, in Italia e nel mondo il ripudio della guerra. [Celeste Grossi, delegata Arci nazionale Politiche di genere, ecoinformazioni]

[Immagine di copertina da Comostreetart]

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