I diritti sono negati nel mondo sono negati a tante persone e chi li difende è sotto attacco, anche in Europa e in Italia. Molte associazioni, reti e movimenti che ogni giorno dell’anno operano per i diritti di tutti e tutte oggi celebrano se stesse e il diritto di avere dei diritti.
Oggi è la giornata in cui ricordiamo la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, un codice etico che in 30 articoli sancisce universalmente (cioè in ogni parte del mondo) che i diritti civili, politici, economici, sociali, culturali spettano a tutti gli esseri umani, donne e uomini. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione».
Ma dove cominciano i diritti umani universali? Secondo Eleanor Roosvelt, femminista e attivista nella tutela dei diritti, che ha avuto un ruolo importante nel processo di creazione delle Nazioni Unite e ha presieduto la Commissione che delineò ed approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani e che il 10 dicembre del nel 1948 la proclamò: «In posti piccoli, vicino a casa: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, il campo o l’ufficio in cui si lavora. Sono questi i posti in cui ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, cerca una giustizia equa, pari opportunità, uguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non significano niente là, significheranno ben poco ovunque».
Proprio il 10 dicembre viene assegnato, a Oslo, il Premio Nobel per la Pace, una giornata scelta per indicare che diritti e pace sono imprescindibili. La prima a riceverlo nel 1905 fu Berta Von Suttner, collaboratrice di Alfred Nobel che lo convinse con un impegno insistente a istituire anche il Nobel per la Pace.
In questo anno assai difficile per la Pace e i diritti il Premio è andato a Ales Bialiatski, attivista bielorusso per i diritti umani del Viasna Human Rights Centre of Belarus e a due organizzazioni umanitarie: il Russia’s Memorial e l’Ukraine’s Center for civil Liberties.
Speriamo sia di buion auspicio per il cessate il fuoco nella guerra che si combatte in Europa anche con armi italiane, con l’autorizzazione quasi unanime del Parlamento della Repubblica che «ripudia la guerra».
Proprio il 10 dicembre la Rete italiana delle Donne in nero ha fatto appello ai Paesi dell’Unione Europea affinché «accolgano prontamente entro i propri territori gli obiettori di coscienza, i disertori, i renitenti alla leva in fuga dalla Russia, dall’Ucraina e dalla Bielorussia, concedendo loro protezione, in virtù della situazione di pericolo in cui versano e delle vessazioni a cui sono sottoposti nei loro Paesi d’origine per la scelta di non imbracciare le armi e di praticare la nonviolenza attiva».
Anche noi come le Donne in nero ripudiamo la guerra e crediamo che tutti i conflitti armati possano essere prevenuti con gli strumenti della politica, della diplomazia, della presenza di un maggior numero di donne ai tavoli delle trattative e esprimiamo la nostra vicinanza a quanti hanno scelto la strada impervia della nonviolenza.
In questo 10 dicembre la memoria va immediatamente a Shirin Ebadi, l’avvocata iraniana Premio Nobel per la Pace nel 2003, per il suo impegno in difesa dei diritti civili e contro l’umiliante condizione della donna in Iran. Nata nel 1947, Shirin Ebadi è stata la prima donna musulmana a ricevere il Premio. A 5 anni dal Nobel, il 10 dicembre, durante una cerimonia per i 60 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani fu chiuso il Circolo dei difensori dei diritti umani di cui Ebadi era stata fondatrice. Più volte minacciata di morte dai fondamentalisti, fu costretta a lasciare l’Iran nel 2009, e la difesa di molte donne imprigionate per essersi mobilitate a difesa delle ragazze e dei ragazzi che protestavano per i brogli elettorali.
Ebadi, in occasione dell’uscita del suo romanzo, La gabbia d’oro, Rizzoli 2008, ha detto: «Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti».
Sono molte le donne iraniane che hanno scelto l’esilio volontario, tra queste Azar Nafisi, espatriata dal 1997, dopo l’espulsione dall’Università di Teheran per il rifiuto di indossare il velo: «La confisca della storia iraniana la perdita della mia identità come persona con determinati princìpi e convinzioni (come donna, insegnante, scrittrice e lettrice) mi faceva sentire orfana, senza una casa, nell’amato paese dove ero nata. Non era solo una questione politica, era ormai esistenziale».
Nafisialcuni anni fa, ha suonato un campanello d’allarme per noi europei, soprattutto per noi donne: «La cosa più importante è capire che la libertà non deve mai essere data per scontata. Pensiamo ai diritti delle donne: in Italia, negli Stati Uniti, in Francia molte donne hanno lottato per i propri diritti, per esempio per il diritto di voto. E questo per secoli, perché per secoli, appunto, questo diritto è stato negato. Ora in occidente vedo il pericolo che ci si adagi. Mi sembra che non si capisca che anche qui questi diritti non sono acquisiti una volta per tutte. Chi invece lo capisce, capisce subito che è importante sostenere chi sta lottando in altre parti del mondo per gli stessi diritti».
Le sue parole risuonano potenti ora che in Iran le ragazze guidano le lotte di popolo con lo slogan, Donna, vita, libertà – Jin, jiyan, azadî, ripreso dalle donne curde che lo hanno usato già 40 anni fa per indicare un modello di liberazione che immaginava una società nuova, equa e democratica.
Dal 13 settembre quando Jîna Mahsa Amini la giovane curda iraniana è stata uccisa mentre era detenuta dalla “polizia morale” per una ciocca di capelli che fuoriusciva da velo le proteste non si fermano. L’obbligo del velo è diventato il simbolo della politica repressiva e discriminatoria del regime iraniano e l’opposizione al velo è diventata la sfida al regime, riassumendo in sé la lotta per diritti, laicità, libertà, democrazia e raccogliendo anche le proteste per le difficoltà economiche e le tensioni etniche. Sono davvero impressionanti le immagini delle piazze piene in tutto il paese, che, sfuggendo alle maglie della censura iraniana, diventano virali. Il movimento di protesta continua ad allargarsi e unisce, spalla a spalla, curdi, beluci, gillek, persiani, turchi, tat, talysh e molti altri popoli. Alle giovani donne si sono unite le loro madri e i loro fratelli, le università e poi gli operai del petrolchimico, che furono determinanti ai tempi della cacciata dello scià. La lotta è ora di popolo e potrebbe diventare una rivoluzione perché le iraniane e gli iraniani sono in piazza a rischiare la propria libertà, e spesso la propria vita, per i diritti di tutte e tutti e contro lo stato teocratico.
Il regime reagisce violentemente temendo che le manifestazioni possano segnare la fine di un ciclo cominciato nel ’79. Almeno 470 persone sono state uccise nella repressione, tra queste 64 non avevano neppure 18 anni. Finora sono almeno 28 le persone condannate a morte per il coinvolgimento nelle proteste, nel corso delle quali sono state arrestate migliaia di persone.
Serrande delle botteghe chiuse per tre giorni nelle città iraniane, in solidarietà con le proteste, per lo sciopero generale di tre giorni che si è concluso il 7 dicembre, in piazza Azadì, la piazza della Libertà, nella capitale Teheran, con un raduno in coincidenza con la giornata dedicata agli studenti universitari. Lo sciopero e i cortei non si sono fermati neppure quando il capo della magistratura ha diffuso la notizia, non confermata dal ministero degli Interni, della “sospensione” della polizia morale. La risposta del regime non si è fatta attende e l’8 dicembre il governo iraniano ha annunciato di aver eseguito la prima condanna a morte, per impiccagione. E ha ribadito che «il prezzo da pagare per chi non porterà il velo nel nostro Paese si alzerà».
Ogni rivoluzione ha un simbolo: il velo lo è per quella iraniana. Come lo è stato per l’instaurazione della teocrazia di Khomeini. Nel 1979 il chador è stato imposto come espressione dell’identità delle donne iraniane e ora diventa il simbolo della lotta contro il potere degli ayatollah. Non è la prima volta che le iraniane fanno del velo il simbolo della loro lotta per i diritti. Lo ha fatto Masih Alinejad, la donna iraniana in esilio dal 2009, lanciando nel 2014 la campagna My stealthy freedom (la mia libertà clandestina) che ha avuto un grande seguito e scrivendo un’autobiografia intitolata, Il vento tra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran (Nessun Dogma 2020).
«Il vento tra i capelli non è solo una suggestione, è una sensazione fisica di libertà. Solo chi l’ha provato può percepirla». Scrive Giuliana Sgrena nel suo recente libro, Donne Ingannate. Il velo come religione, identità, libertà. Auguriamoci, in questo 10 dicembre che il vento soffi nella direzione giusta nel paese dei melograni e che faccia nuovamente danzare i lunghi capelli delle donne.
Le donne in Iran lottano per i loro diritti dalla seconda metà del 1800. Faezeh Mardani, curatrice della raccolta di poesie di Forough Farrokhzad (1935 – 1967), È solo la voce che resta. Canti di una donna ribelle del Novecento iraniano, pubblicato per Aliberti editore nel luglio del 2009, scrive: «Questo lavoro va in stampa mentre per le strade di Tehran le donne, cresciute con la poesia di Farrokhzad, muoiono davanti agli occhi di tutto il mondo. È dalla seconda metà dell’Ottocento che le donne iraniane, attraverso la poesia e la parola, testimoniano la loro condizione, lottano per i loro diritti e, quando è necessario, offrono la vita per i loro ideali. La storia continua e si ripete. Ancora oggi le impavide donne iraniane con la loro presenza e con la loro voce proibita raccontano al mondo la tormentata storia della loro terra. È sempre la voce che resta…».
La storia continua e si ripete. Ma quella voce arriva anche a noi.
Dobbiamo ascoltarla, rilanciarla, continuando a illuminare quanto avviene in Iran e non dimenticare «mai che basterà una crisi politica, economica, religiosa, affinché i diritti delle donne siano messi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovrete stare attente alla vostra vita». (Simone De Beauvoir). [Celeste Grossi]