L’incontro di approfondimento sull’Indifferenza glaciale organizzato martedì 16 febbraio all’interno del Mese della Pace 2021 da Acli, Arci, Caritas, Como senza frontiere e Coordinamento comasco per la Pace ha costituito un’importante occasione per conoscere la drammatica situazione presente sulla rotta balcanica, ma non solo.
Grazie agli appassionati e lucidi interventi di Silvia Maraone (Ipsia-Acli) e Maso Notarianni (Arci), e all’efficace coordinamento di Anna Merlo (Caritas diocesana Como), si sono potute analizzare molte dinamiche del fenomeno migratorio particolarmente evidenziate, oggi, proprio dalla situazione nei Balcani, ma in realtà presenti a livello globale.

La cosiddetta “rotta balcanica” in effetti non costituisce una eccezione. Sia dal punto di vista dei migranti (è una rotta tra le tante, continuamente modificate e reinventate per cercare di trovare i possibili varchi nelle mura della Fortezza Europa), sia da quello degli Stati europei chiusi su se stessi, che anche lì adottano il principio di esternalizzazione delle frontiere, nel tentativo di allontanare il più possibile dal cuore ricco del continente gli effetti più tragici e feroci del blocco delle migrazioni. Sia Maso Notarianni che Silvia Maraone hanno evidenziato con forza che le rotte di mare e di terra sono analoghe, fluide tutte e tutte – a volte – letali: si annega in mare, ma si annega anche nei fiumi, ci si perde nella sabbia come nella neve, si muore del caldo torrido come del freddo glaciale. L’analisi di questa dura realtà impone di dire con chiarezza che questi sono gli esiti delle politiche (o meglio: delle non-politiche) migratorie dei governi occidentali, che non esitano a utilizzare anche i respingimenti di massa (pratica vietata dalla giurisdizione internazionale) nel Mediterraneo o al confine orientale, a volte direttamente, a volte con un atroce rimbalzo da un paese all’altro.
Le rotte, sempre più impervie, sempre più tortuose, sono usate come un filtro: 3.600.000 profughi in Turchia, 120 mila in Grecia, 10 mila in Serbia, la decimazione serve a garantire che in Italia (a sua volta “porta” dell’ambita Europa centrale) arrivino poche centinaia di sopravvissuti. Le poche persone che non sono state sommerse.
Questa incapacità politica di “governare” il fenomeno migratorio nella sua logica generale genera anche l’insufficienza della risposta nelle situazioni più drammatiche: i campi per i profughi sulla rotta balcanica (sette centri di accoglienza e uno di transito) sono affidati all’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) per l’indisponibilità dei governi locali a farsene carico.
Ecco quindi un primo elemento che i migranti fermati in Bosnia insegnano a tutti e tutte noi: quella situazione non è un’emergenza derivata da una sfortunata concomitanza di fattori (il freddo, il covid, la crisi economica) bensì l’esito progettato se non proprio desiderato di politiche (o meglio di non-politiche) vessatorie e liberticide (già: perché il “diritto di migrare” è ufficialmente sancito dal diritto internazionale e le Nazioni Unite per prime dovrebbe vigilare sulla sua difesa).
Ancora più precisamente, la situazione attuale della rotta balcanica evidenzia che una (parziale) soluzione alle criticità del fenomeno migratorio non può venire da generose offerte eccezionali come i “corridoi umanitari”, bensì da una modifica delle politiche ordinarie, cioè con l’attivazione di un regime regolare di concessione di visti (per tutti i possibili motivi). Su questo Silvia Maraone, in base alla sua profonda esperienza sul campo, è stata esplicita. E il corollario di questa consapevolezza è stato espresso in maniera altrettanto sfacciata da Maso Notarianni: di fronte a quanto sta succedendo, non basta far correre la mano al portafoglio per “metterci qualcosa”, bisogna metterci l’impegno per far cambiare in modo radicale le politiche sulle migrazioni. (Da questo punto di vista, la situazione in Italia e in Europa appare assai sconfortante: nel profluvio di parole sul “cambiamento epocale” che la crisi determinata dal covid-19 impone, la questione migratoria sembra proprio uscita dall’orizzonte politico…)
Il disastro umanitario che si sta perpetrando tra Bosnia e Croazia dovrebbe anche insegnare che una crisi di queste proporzioni non può essere risolta con mezzi militari o polizieschi. Il nome che è stato dato alle tragiche sequenze di tentativi di attraversare le diverse frontiere dai Balcani all’Italia (“The Game”, cioè “il gioco”) ha suscitato un certo scandalo e disappunto: come si fa a parlare di “gioco” per una cosa così grave? è stato detto. Mi pare che sia sfuggito il riferimento fondamentale: non agli innocenti giochi infantili, ma ai violenti giochi virtuali, in cui la violenza viene esercitata ai massimi livelli. Sulle diverse rotte (di mare o di terra poco importa) è questa la regola fondamentale che si impone ai migranti (i racconti sulle violenze – subite da femmine e maschi, giovani o meno, in Libia con nei Balcani, ma, ahinoi, a volte anche in Italia – sono veramente atroci), unita a quell’altra regola dell’azzardo, cui nessuno riesce a sottrarsi. Sono giochi di morte, certo, in cui gli Stati della civilissima Europa purtroppo, a volte, svolgono il ruolo di carnefici.
Ma il racconto della serata del 16 febbraio ha insegnato anche che si può affrontare questa immane tragedia con atteggiamento forte ed efficace (persino sorridente), e le esperienze di Silvia (nei campi bosniaci) e di Maso (su Mediterranea) sono la prova che qualcosa si può e si deve fare e che la cultura del lamento non serve a nulla.
Infine un insegnamento che si dovrebbe immediatamente declinare anche a livello locale. Tra gli impegni della rete di solidarietà internazionale a sostegno dei migranti sulle rotte balcaniche, c’è anche quello di mettere a disposizione di queste persone “dannate della terra” dei luoghi di socialità, dei “social cafè” dove trovare un minimo di conforto non solo materiale. È fondamentale proteggerle dal freddo e dalle violenze, ma anche dall’abbandono e dalla solitudine. E allora la ruspa guidata da Silvia invece di abbattere case e tende ha spianato una vasta area su cui innalzare delle tensostrutture per servire da mensa e da ritrovo.
Sono riusciti a farlo in Bosnia, ma a Como no, un centro diurno per migranti non si può fare.
[Fabio Cani, ecoinformazioni]